Come noto, la legge – e più in particolare l’articolo 20 dello Statuto dei Lavoratori – sancisce il diritto di assemblea dei lavoratori in azienda. Da diversi anni, tuttavia, vi sono opinioni contrastanti su CHI, esattamente, sia titolare di tale diritto e ne è sorto un contenzioso giudiziale, cui la giurisprudenza ha recentemente messo fine.
Più nel dettaglio, occorre ricordare che l’articolo 20 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce che i lavoratori che prestano opera all’interno di sede, stabilimento, filiale o reparto autonomo che occupa più di 15 dipendenti hanno diritto di riunirsi, fuori dell'orario di lavoro, nonché (nei limiti di dieci ore annue retribuite) durante l'orario di lavoro, salvo condizioni di miglior favore eventualmente previste dai contratti collettivi.
Le riunioni devono riguardare materie di interesse sindacale e del lavoro e possono essere indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali.
Proprio quest’ultimo punto ha fatto sorgere i dubbi di cui si è detto. E infatti, molti “addetti ai lavori” si sono chiesti se, ove in azienda sia costituita una RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria), il potere di indire l’assemblea spetti alla RSU nel suo complesso (per cui sarebbe necessaria una decisione adottata dalla maggioranza dei componenti dell’organo), oppure spetti a ciascun membro, eventualmente anche contro il parere degli altri.
Nel corso degli anni sono state date, da giuristi e giurisprudenza, risposte sia in un senso che nell’altro, sulla base delle motivazioni più svariate.
Il contrasto, infine, è stato risolto da una sentenza resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (una specifica composizione della Corte, dotata di particolare autorevolezza) con la sentenza n. 13978 del 2017, il cui enunciato è quindi stato recepito anche dalla giurisprudenza di merito (ad esempio dalla Tribunale di Nola, nella sentenza n. 2462 del 14 dicembre 2017).
Le due sentenze richiamate, sostanzialmente analoghe, si fondano su argomentazioni piuttosto tecniche, su cui non è il caso di indugiare in questa sede. È tuttavia sufficiente rilevare che le decisioni si incentrano sull’osservazione che l’Accordo Interconfederale del 20.12.1993, che attribuì alle organizzazioni sindacali la facoltà di istituire nelle aziende, in alternativa alle RSA, la RSU, sancì il principio secondo cui i componenti delle RSU subentrano nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele spettanti, secondo la legge, ai dirigenti delle RSA. La conseguenza è che taluni diritti sindacali (come quello di indire referendum) o la facoltà di stipulare accordi sindacali aziendali, sono “confluiti” nella RSU (come organo collegiale, che decide a maggioranza), altri, invece, spettano ai suoi singoli componenti.
Non tutte le prerogative delle singole RSA, dunque, afferma la Cassazione, si sono “confuse e dissolte all'interno del principio di maggioranza che regge le RSU”. Talune di esse, tra cui ovviamente il diritto di beneficiare dei permessi sindacali, ma, appunto, anche quello di indire l’assemblea dei lavoratori, non spettano collegialmente alla RSU, ma singolarmente ad ogni suo componente. E il principio deve considerarsi valido anche sulla base dei più recenti accordi interconfederali (tra cui il cosiddetto Testo Unico sulla rappresentanza sindacale del 10.1.2014).
Occorre tuttavia specificare che, per il momento, la Corte non chiarisce se il potere di indire l’assemblea spetti al singolo componente della RSU solo se esso sia stato eletto nelle liste di un sindacato dotato di “rappresentanza qualificata” (cioè che abbia firmato un accordo collettivo applicato in azienda o quantomeno partecipato alle relative trattative, pur rinunciando a sottoscriverlo), come è stato affermato da talune sentenze in passato, sulla base di una interpretazione più letterale degli articoli 19 e 20 dello Statuto dei Lavoratori, o indipendentemente da tale requisito. Pur nell’incertezza, tuttavia, la seconda opzione appare maggiormente coerente con le stesse argomentazioni su cui poggia la sentenza in commento.
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