È noto che durante la malattia il lavoratore ha l’obbligo di rimanere presso la sua dimora per l’intera durata delle fasce orarie di reperibilità. Per i dipendenti privati, queste ultime vanno dalle ore 10 alle 12 e dalle ore 17 alle 19, mentre, per i dipendenti pubblici, sono state estese dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18. Il mancato rispetto di tale obbligo può comportare la perdita dell’indennità di malattia e avere anche conseguenze disciplinari.
La casistica delle pronunzie giurisprudenziali sulla materia è pressoché sconfinata e ricomprende le ipotesi più varie, da quelle oggetto di lunghe riflessioni dottrinali di professori e avvocati in ragione della complessità delle questioni giuridiche sottese, a quelle che vengono pubblicate sui comuni mezzi d’informazione relative a lavoratori sorpresi a partecipare a gara podistiche o a viaggi intorno al mondo durante la malattia (magari scoperti grazie a foto dell’arrivo al traguardo da essi stessi pubblicate sui social network, dimenticando di avere il capo tra i propri followers).
Tralasciando la seconda categoria di ipotesi, è interessante rilevare che, in una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha giudicato come illecito grave – meritevole di licenziamento per giusta causa, vale a dire della forma più grave di licenziamento disciplinare – le reiterate assenze ingiustificate del lavoratore in occasione della visita medica fiscale.
Il caso di specie riguardava una lavoratrice, con qualifica di dirigente, che per tre volte nell’arco di due mesi era risultata assente senza giustificazioni dal suo domicilio in occasione delle visite di controllo. Merita specificare, peraltro, che in tutte e tre le occasioni la lavoratrice si era sottoposta il giorno successivo a visita fiscale, risultando effettivamente malata (è chiaro, infatti, che la falsa attestazione della malattia costituisce indubbiamente illecito grave, oltre che truffa ai danni dell’INPS, rispetto alla quale il licenziamento è sanzione scontata).
Nella sentenza n. 64 del 2017, la Corte di Cassazione ha tuttavia precisato che la permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisce di per sé un importante obbligo per il lavoratore ammalato, in quanto l'assenza rende impossibile il controllo della sussistenza della malattia. L’assenza ingiustificata, pertanto, integra un inadempimento: sia nei confronti dell'istituto previdenziale, sia nei confronti del datore di lavoro.
Per tale ragione, la Cassazione ha giudicato non censurabile la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo e proporzionato il licenziamento disciplinare della lavoratrice citata, per aver la condotta leso irreparabilmente l’affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre nel prestatore, in special modo di categoria dirigenziale. Del resto, prosegue la sentenza, “il fatto che in un momento successivo alla visita non eseguita per assenza della lavoratrice fosse stata confermata, da parte del medico dell'Inps, la malattia diagnosticata con la relativa prognosi non rilevava ai fini dell'appurato inadempimento dell'obbligo di comunicazione preventiva dell'assenza dal domicilio”.
Appare peraltro chiaro che, nella sentenza richiamata, la Corte ha dato particolare rilievo, nel valutare la gravità della condotta della dipendente, al fatto che le assenze alle visite di controllo fossero state ben tre nel giro di soli due mesi. In un’altra recente occasione (sentenza n. 18858 del settembre 2016), la stessa Cassazione ha annullato la sentenza che aveva ritenuto proporzionato il licenziamento comminato ad una lavoratrice che era risultata assente una sola volta alla visita di controllo (anche in questo caso la malattia era poi stata accertata come realmente sussistente).
In tale ultima ipotesi, secondo la Suprema Corte, il Giudice d’appello, nel giudicare legittima la sanzione espulsiva, aveva non aveva fatto corretta applicazione dei principi secondo cui “la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare”.
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