La Cassazione ribadisce che il patto di prova è ripetibile in un nuovo contratto tra le stesse parti quando, pur rimanendo invariate le mansioni del lavoratore, muti il contesto lavorativo, conservando in tal caso il patto la propria funzione di tutelare l'interesse comune delle parti.
Come è noto, la stipulazione del contratto di lavoro può prevedere lo svolgimento di un periodo di prova variabile, durante il quale il recesso è c.d. ad nutum, ovvero le parti possono recedere senza l'obbligo del preavviso o di indennità (art. 2096 cod. civ.).
Si è molto discusso sulla natura giuridica del patto, ma interessa qui soprattutto richiamare l'attenzione sulla sua funzione originaria e fondamentale.
Esso, contrariamente alla convinzione più diffusa, rappresenta uno strumento messo a disposizione non del solo datore di lavoro, ma di entrambe le parti del rapporto, allo scopo di consentire ad esse di sperimentare la convenienza dello stesso, con riferimento a vari aspetti come le mansioni assegnate, il contesto aziendale, i rapporti con gli altri dipendenti, il luogo e l'orario di lavoro e così via.
Nonostante la funzione equilibrata del patto, volta cioè alla tutela di entrambe le parti (le quali potranno così valutare la convenienza del rapporto di lavoro) esso si configura spesso, all’atto pratico, come uno strumento a disposizione del solo imprenditore, che non di rado lo utilizza per selezionare e valutare il personale da assumere.
La clausola di prova può essere apposta anche ai contratti a termine, di formazione e lavoro, nonché di apprendistato e di lavoro in somministrazione.
La giurisprudenza prevalente favorisce anzi la diffusione del patto di prova, sostenendone la legittimità anche in caso di contratti di lavoro successivi.
In tale quadro si inserisce la recente ordinanza n. 28252/2018 del 06.11.2018 della Suprema Corte di Cassazione, con la quale essa torna sul tema della legittimità della ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro.
Nel caso di specie, la lavoratrice era stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivo ad un altro contratto a tempo determinato (la distanza temporale tra i due contratti era di un anno e mezzo).
La lavoratrice aveva impugnato giudizialmente il licenziamento irrogato per il mancato superamento del periodo di prova, deducendone la nullità con conseguente inefficacia del licenziamento.
Affermava in particolare la lavoratrice di aver già superato il periodo di prova nello svolgimento del precedente contratto a tempo determinato, avendo svolto medesime mansioni.
La Cassazione, rigettando il ricorso della ricorrente, conferma la propria giurisprudenza ricordando che “la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto".
"E’, peraltro, ammissibile - prosegue la Corte - il patto di prova in due contratti di lavoro successivamentestipulati tra le stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”.
In sostanza, rileva il fatto che in più contratti di lavoro successivi tra le stesse parti, possano intervenire modifiche e variazioni delle condizioni lavorative, per l’intervento di molteplici fattori riferiti alla vita personale del soggetto stesso e non solo.
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