In regime di part-time verticale ciclico, ai fini della maturazione del diritto a pensione, devono essere riconosciuti a tal fine anche i periodi non lavorati

23 febbraio 2018

Secondo la Corte di Giustizia UE anche i periodi non lavorati, nel caso del part-time verticale ciclico, il cui rapporto rimane comunque in essere senza soluzione di continuità, devono essere computati ai fini dell'anzianità contributiva.

La questione del trattamento previdenziale nel lavoro c.d. part-time verticale (quandol'attività lavorativa viene svolta a tempo pieno, ma solo in certi giorni o periodi all'anno) è molto interessante ed è stata da ultimo affrontata anche dalla sezione Lavoro del Tribunale di Firenze, nella sentenza n. 829/2017 del 10.10.2017.

Per la verità anche altri Giudici si erano già espressi al riguardo.

Per affrontare l'argomento dobbiamo partire dalla disciplina comunitaria del sistema contributivo pensionistico, che è dettata dalla direttiva CE 97/81, secondo la quale l'anzianità contributiva utile ai fini della determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione, per i lavoratori part-time verticale va calcolata come se questi fossero occupati a tempo pieno e dunque prendendo in considerazione anche i periodi non lavorati.

Il problema nasce dal fatto che l'INPS accredita invece la contribuzione solo per i mesi durante i quali la prestazione è stata svolta, considerando il rapporto lavorativo sospeso per i mesi restanti e creando in tal modo un vuoto che influisce non poco ai fini della maturazione del diritto alla pensione.

Annotiamo, con il Tribunale di Firenze che pure richiama il precedente autorevole, che la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 2467/2015 e 8565/2016, ha riconosciuto come illegittima tale condotta, ricordando che l'eventuale disparità di trattamento potrebbe essere consentita solo in presenza di ragioni obiettive, mentre i periodi di non-lavoro nei contratti part-time verticali ciclici sono una normale modalità di esecuzione del contratto e non una sua sospensione o interruzione.

E' chiaro così che in questi contratti il rapporto perdura anche nei periodi di sosta (riprova ne sia il fatto che non spetta né la ex indennità di disoccupazione, oggi naspi - Cass. SS.UU. 1732/2003, né l'indennità di malattia - Cass. 12087/2003) e dunque tali periodi devono essere inclusi nel calcolo dell'anzianità contributiva utile ai fini pensionistici.

Che un lavoratore a tempo pieno percepisca una pensione più alta rispetto ad un lavoratore part-time (e ciò in virtù del maggior numero di ore effettivamente prestate) è del tutto ovvio, ma ciò non toglie che i due rapporti di lavoro abbiano la stessa valenza ai fini dell'età pensionabile.

L'indirizzo in parola era stato già affermato dalla Corte di Giustizia CE nella sentenza n. 395/2010 relativa a personale di volo della Compagnia Alitalia, oggetto anche della pronuncia del Tribunale di Firenze in commento.

La Corte Europea rileva tra l'altro come "i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive".

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