Il datore di lavoro che non riammette in servizio il dipendente a seguito della dichiarazione di illegittimità di un trasferimento d’azienda deve pagare comunque le retribuzioni per intero anche se il lavoratore continua a lavorare per colui che ha acquisito l’azienda. Questo è quanto ha ricordato la Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 29, pubblicata lo scorso 28 febbraio 2019.
Il caso esaminato dalla Consulta riguardava un dipendente passato ad altro datore di lavoro nell’ambito di un trasferimento d’azienda avvenuto ai sensi dell’art. 2112 cc, poi dichiarato illegittimo. Nonostante la dichiarazione di illegittimità del passaggio e la formale messa a disposizione del dipendente, l’azienda cedente non riammetteva in servizio il lavoratore che, come spesso accade, proseguiva a svolgere l’attività a favore del cessionario.
Per quel che qui interessa, i dubbi di legittimità costituzionale sono stati rinvenuti nel fatto che, secondo l’interpretazione prevalente al momento della rimessione della questione alla Corte, nel caso in cui il dipendente avesse continuato a lavorare per il cessionario, il cedente avrebbe dovuto risarcire il danno cagionato, quantificato nelle retribuzioni che il dipendente avrebbe continuato a percepire se il trasferimento non ci fosse mai stato, ma detratto quanto percepito dal nuovo datore di lavoro. Ne seguiva, dunque, una sorta di “esenzione” da qualsiasi ripercussione negativa in capo al cedente, considerando soprattutto che la retribuzione percepita presso il cessionario è quasi sempre identica, almeno nell’immediato, a quella percepita presso il precedente datore.
Non solo, nell’ottica descritta il lavoratore risultava di fatto privo di adeguata “giustizia”, rendendo anche la stessa tutela giudiziale azionata del tutto non effettiva. Da qui i dubbi di costituzionalità per contrasto con l’art. 24 della Costituzione (diritto di difesa e di agire in giudizio), oltre che con l’art. 3, non essendo prevista la stessa decurtazione e disciplina per rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato.
È nel quadro descritto che si inserisce la pronuncia della Corte Costituzionale che pur dichiarando infondata la questione, ha ricordato che nelle more del giudizio di legittimità costituzionale l’interpretazione prevalente sul punto è cambiata, superando così ogni dubbio di legittimità. La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 2990 del 7 febbraio 2018, specificamente richiamata dalla Consulta, ha infatti ribaltato l’orientamento prevalente, seppur nell’ambito di un diverso contenzioso. La fattispecie decisa dalla Corte romana riguardava, infatti, un contratto a termine dichiarato illegittimo, con conseguente conversione in contratto a tempo indeterminato e diritto del lavoratore ad essere reintegrato. Reintegra che tuttavia non veniva eseguita dal datore di lavoro sanzionato, nonostante la formale messa a disposizione fatta dal dipendente. Ebbene, se in precedenza la giurisprudenza maggioritaria riconosceva, anche in questo caso, che al lavoratore spettasse solo il risarcimento del danno, pari alle retribuzioni non percepite, detratto quanto riscosso dal nuovo datore di lavoro; la sentenza sopra richiamata ha ribaltato l’orientamento descritto, affermando che a fronte di una formale messa disposizione, è dovuta la retribuzione per intero anche se il lavoratore percepisce altri stipendi, cioè lavora per altri soggetti, qualificando così in termini non solo risarcitori, ma anche retributivi, l’obbligo datoriale.
Per la Corte Costituzionale, non ci sono più dubbi. Superati (in positivo) gli ostacoli che avevano portato a dubitare della legittimità costituzionale della disposizione, a fronte di tale nuovo orientamento - che, seppur espresso in materia di contratti a termine, è applicabile perfettamente anche ai casi di mancata riammissione in servizio a seguito di trasferimento d’azienda dichiarato illegittimo – la questione di legittimità deve essere dichiarata infondata, poiché ormai irrilevante.
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