Lavoratrice madre: niente licenziamento se il trasferimento è rifiutato dopo il periodo di maternità – Cassazione 6 febbraio 2017, n. 3052
Il licenziamento della lavoratrice madre che si rifiuti di riprendere servizio presso una diversa sede di lavoro è illegittimo se il trasferimento è preordinato a sostituire la dipendente con un altro lavoratore e non è frutto della reale soppressione della posizione lavorativa. Questo è quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 3052/2017, che ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Firenze, secondo la quale in presenza di un lavoratore assunto a tempo indeterminato nella stessa posizione di una lavoratrice in congedo di maternità, il trasferimento a cui quest'ultima si era opposta doveva ritenersi nullo, inficiando così la legittimità del successivo licenziamento, in quanto non sorretto dalla dichiarata impossibilità di adibirla a mansioni presso la sede di origine, ma esclusivamente dalla volontà del datore di lavoro di rimpiazzare la lavoratrice assente. Andiamo per gradi.
La vicenda sottoposta alla Corte romana riguarda una responsabile del punto vendita di Firenze di una società attiva nel settore Retail, la quale, al rientro in servizio dopo un periodo di assenza per maternità seguito dall'obbligo di smaltire le ferie arretrate, e` stata trasferita a Milano. Nel corso del periodo di assenza per astensione obbligatoria della dipendente, la società datrice di lavoro (ecco il punto!) ha assunto, a tempo indeterminato, un nuovo responsabile per l’area vendita fiorentina, peraltro inquadrato in un livello inferiore rispetto alla lavoratrice assente. Un mese prima del programmato rientro in servizio della dipendente titolare del ruolo, la società ha attribuito al nuovo assunto anche la gestione dei punti vendita di Pisa e Siena. Proprio in forza di tale riorganizzazione, l’azienda datrice ha denunciato la soppressione del vecchio ruolo ricoperto dalla lavoratrice in maternità, con conseguente necessità del suo trasferimento. Posta di fronte al rifiuto della dipendente, la società ne ha disposto il licenziamento.
È nel quadro appena descritto che la Suprema Corte di Cassazione, ricollegandosi alle valutazioni espresse dalla Corte territoriale, ha ritenuto che il comportamento complessivo della società fosse preordinato alla espulsione della dipendente e non, invece, motivato da un corretto esercizio del potere di trasferimento. Pur a fronte dell'invocata riorganizzazione, osserva la Corte, la posizione ricoperta dalla dipendente doveva e poteva essere a lei riassegnata al rientro dal periodo di maternità, considerate le sue competenze professionali, non di certo inferiori a quelle del lavoratore chiamato a sostituirla durante il periodo di assenza dal posto di lavoro.
I giudici della Corte di Legittimità, in particolare, hanno evidenziato come il licenziamento, se pur formalmente giustificato dal rifiuto della lavoratrice a trasferirsi in altra sede aziendale, fosse invece stato intrapreso proprio in considerazione della maternità appena acquisita dalla lavoratrice. Ciò trova conferma nella mancata valutazione aziendale di altre candidature nell’operazione di trasferimento, anche e soprattutto alla luce delle competenze professionali ricoperte, ma di aver al contrario mirato direttamente alla neo –mamma, quale soggetto da trasferire.
Alla luce di tale ricostruzione, si legge nella motivazione della sentenza qui commentata, che la lavoratrice ha legittimamente omesso di riprendere servizio nella nuova sede di lavoro, in virtù del principio civilistico per cui il contraente può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se la controparte contrattuale risulta inadempiente ai propri obblighi, com’è avvenuto nel caso di specie. Il licenziamento pertanto deve essere dichiarato illegittimo con conseguente diritto della dipendente alla reintegra nel posto di lavoro, in forza di quanto stabilito dall’art. 18, comma 1 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970).
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