L’onere di impugnazione del lavoratore nel caso di contratti di collaborazione illegittimi

22 dicembre 2017

Un lavoratore aveva prestato opera entro diversi contratti di consulenza dal 2007 al 2015 per una nota azienda del settore moda.

L’ultimo contratto di collaborazione era terminato prima della scadenza con il recesso anticipato della Società.

Il lavoratore aveva così adito il Tribunale per sentir accertare la natura subordinata del rapporto sin dal suo inizio nel 2007, nonché l’illegittimità del licenziamento di fatto subito.

La Società convenuta si costituiva in giudizio eccependo, in via preliminare, la decadenza dell’attore dal diritto di avanzare qualsiasi pretesa in relazione a tutti i contratti intercorsi tra le parti tranne l’ultimo, l’unico del quale a parere della convenuta era stata tempestivamente contestata la legittimità, nel termine previsto dall’art. 32, L. 183/2010. Tale norma impone, infatti, che il lavoratore impugni entro 60 giorni e che il ricorso giudiziale sia depositato entro i 180 giorni successivi all’impugnazione. Ma cosa deve essere impugnato? La legge prevede testualmente che il doppio termine si applichi, tra le altre, alle seguenti ipotesi:

 “a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzioni di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro; b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409, numero 3), del codice di procedura civile [Omissis].”.

L’adito Tribunale di Arezzo accoglieva la tesi della convenuta, sia nella fase sommaria che in quella successiva di opposizione. La sentenza di primo grado afferma infatti che “tale termine di decadenza deve ritenersi applicabile non solo in caso di impugnazione del recesso, ma anche qualora, dopo la scadenza, si intenda discutere la natura subordinata del rapporto”.

Il lavoratore proponeva così reclamo alla Corte d’Appello Fiorentina che, con sentenza 1090/2017, ha chiarito l’inapplicabilità della norma sopra trascritta e die termini di decadenza al caso di specie.

Come spiega la Corte, il testo della norma è inequivoco nel sottoporre a decadenza (per quel che rilevava nella causa), esclusivamente l’azione del lavoratore diretta ad impugnare il licenziamento, comunque qualificato, dall’affermato datore di lavoro e dunque anche il recesso del committente nei rapporti di collaborazione. Non sono invece soggette a decadenza tutte le altre pretese che risultino comunque connesse alle relazioni negoziali cessate per effetto del licenziamento o del recesso del committente. Pertanto, nella fattispecie in questione, l’unico termine di decadenza che il lavoratore doveva impedire e che di fatto aveva impedito, era, secondo il tenore letterale di cui all’art. 32, comma 3, L. 183/2010, quello decorrente dalla comunicazione del recesso della società del rapporto in essere, mentre non trova alcuna preclusione l’accertamento della natura effettivamente subordinata di quel rapporto, protrattosi, senza soluzione di continuità, fino al recesso tempestivamente impugnato.   

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