Lo stato di malattia non impedisce, in generale, al dipendente di svolgere altra attività lavorativa, purché l'attività non sia tale da far presumere una fraudolenta simulazione della malattia stessa o da pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio
Il licenziamento intimato a causa dello svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di malattia è un'ipotesi assai ricorrente nella casistica giurisprudenziale.
Va detto che in argomento v'è oramai una giurisprudenza consolidata nel senso della liceità della attività al ricorrere di determinate condizioni.
Cominciamo col ricordare che la malattia costituisce una causa sopravvenuta di impossibilità temporanea della prestazione che non determina la risoluzione del rapporto, ma la sua sospensione.
Ed invero, durante la malattia il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore in malattia per un periodo di tempo generalmente stabilito dai contratti collettivi (il c.d. periodo di "comporto").
La domanda che si pone è cosa accade se il lavoratore, durante la malattia, venga sorpreso a svolgere un'altra attività lavorativa.
Come già enunciato, da molto tempo la Suprema Corte si è pronunciata nel senso di considerare lecito lo svolgimento di altra attività lavorativa alle seguenti condizioni:
- l'attività non deve essere indice di una simulazione della malattia;
- il "secondo lavoro" non deve essere tale da compromettere o anche solo mettere in pericolo o ritardare la guarigione;
- il dipendente non deve svolgere un'attività in concorrenza con l'azienda presso la quale il rapporto è in corso.
Si tratta, a ben vedere, di regole dettate da un elementare buon senso e derivanti dai generali obblighi di correttezza, diligenza, buonafede e fedeltà.
Per gli impiegati pubblici, si pone in più il tema di esclusività del rapporto di pubblico impiego, poiché mentre nel settore privato il dovere di "esclusività" della prestazione lavorativa è ricompreso nell'ambito degli obblighi di fedeltà e non concorrenza, nel pubblico impiego si ricade in un vero e proprio dovere, dettato anche dalla necessità di evitare possibili interferenze e conflitti di interesse con le finalità perseguite dalla Pubblica Amministrazione.
Con la sentenza in commento (n. 21667 del 19 settembre 2017) la Suprema Corte è tornata sull'argomento, non discostandosi dai ricordati principi.
Nel caso di specie un lavoratore in malattia (autista per una ditta di trasporti) si era recato presso l'esercizio commerciale del figlio dove, anche utilizzando la propria autovettura, aveva svolto alcune attività lavorative consistenti, come appurato nel corso dell'istruttoria, nello spostamento di piccoli carichi e nell'aprire e chiudere la saracinesca automatizzata intervenendo sul relativo comando a chiave e per questo motivo era stato licenziato.
Come è evidente, si trattava di attività che non violavano alcuna delle condizioni già ricordate: difficile ritenere che la guarigione potesse essere messa in pericolo dalle attività emerse. Altro sarebbe stato se il lavoratore, infortunatosi al braccio, fosse stato sorpreso a movimentare carichi pesanti a braccia, o a lavorare per una ditta concorrente.
Nessun rilievo, ricorda la Cassazione, ha il fatto che l'attività alternativa sia svolta a titolo oneroso o meno.
Ricordiamo infine che la prova dell'incidenza della diversa attività lavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione è a carico del datore di lavoro.
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