Il congedo di maternità, in caso di ricovero ospedaliero del neonato prematuro, non può essere prolungato, ma soltanto sospeso. Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 10283 del 27.04.2018, nella quale è stata ricostruita tutta la disciplina.
La pronunzia in commento presenta interesse non solo per il principio di diritto reso, ma anche perché con essa la Suprema Corte ricostruisce in modo cronologico tutta la disciplina.
Ricordiamo brevemente il caso.
Con la sentenza n. 966/2012 la Corte d'Appello di Firenze (Sezione Lavoro), accogliendo l'impugnazione proposta dall'INPS avverso la decisione del primo grado, aveva rigettato la domanda di una madre volta al riconoscimento del diritto a fruire del congedo obbligatorio pre e post partum, oltre che nei cinque mesi di legge, anche nei 98 giorni durante i quali il figlio nato prematuro era rimasto ricoverato in ospedale.
La madre aveva promosso ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte ricostruisce nel dettaglio tutti i passaggi: la madre, pur avendo fruito dopo la nascita del figlio, sia dei due mesi di astensione obbligatoria precedente al parto (non fruiti a causa dell'anticipazione dell'evento), che dei tre mesi successivi, chiedeva che le fosse riconosciuta l’indennità di maternità anche per il periodo ulteriore di 98 giorni – pari al tempo durante il quale il neonato era stato ricoverato – ritenendo di averne diritto in quanto il tempo del congedo deve essere utilizzato per l’ingresso in famiglia (avvenuto dopo le dimissioni dall’ospedale, così che il periodo di ricovero doveva ritenersi “neutro” rispetto alla consumazione del congedo).
La Corte Costituzionale, con la sentenza 116/2011, nelle more del giudizio di appello, si era pronunciata in materia, dichiarando l'illegittimità dell’art. 16 d.lgs. 151/2001 nella parte in cui non consentiva alla madre, in caso di ricovero del neonato prematuro, di fruire a richiesta del congedo di maternità a far tempo dalla data d'ingresso del bambino nella casa familiare. Ciò, argomentava la Corte Costituzionale, in quanto il congedo è volto all’integrazione “in famiglia” e tale intento è sacrificato nel caso di ricovero. La stessa Corte aveva però ritenuto il sacrificio di tale ratio inevitabile qualora la madre (alla protezione della cui salute è pure volto il congedo) non fosse in grado di riprendere l’attività lavorativa, delineando di fatto un sistema in cui è possibile “spostare” ma non prolungare il congedo.
Il legislatore è poi intervenuto nel 2015 inserendo nel d.lgs. 151/2001 l’art. 16 bis, a norma del quale: “In caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo di maternità per il periodo di cui all'articolo 16, comma 1, lettere c) e d), e di godere del congedo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino. Il diritto di cui al comma 1 può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell'attività lavorativa.”
Come si vede, anche la legge esclude che la durata del congedo possa essere prolungata nei casi che qui interessano.
La Cassazione, nella sentenza in commento, ha dunque richiamato i limiti di flessibilità del congedo, come delineati dagli artt. 16 e 16 bis del d.lgs. 151/2001 e dalla Corte Costituzionale, ricordando che è vietato adibire le donne al lavoro:
1) durante i due mesi precedenti e i tre mesi successivi alla data presunta del parto;
2) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
3) durante i giorni non goduti prima del parto, qualora questo avvenga in data anticipata rispetto alla data presunta (in tal caso i giorni si aggiungono al periodo di congedo dopo il parto, anche se si superano i cinque mesi).
A tali ipotesi di limitata flessibilità, afferma la Cassazione, si aggiunge quella sopra descritta, nata dalla sentenza della Corte Costituzionale e recepita dal legislatore al fine di contemperare gli interessi del bambino prematuro ricoverato in ospedale (all’inserimento nella famiglia dopo le dimissioni) e quelli della madre (alla ripresa del lavoro solo se in stato di salute idoneo): ipotesi quest’ultima che però non consente di “allungare” il congedo ma solo di “spostarlo”.
Così ricostruita la disciplina, dunque, la Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, sul presupposto che la stessa aveva comunque fruito dell’intero congedo e non aveva allegato in giudizio, né provato, di essere stata idonea alla ripresa del lavoro per il periodo di ricovero del figlio.
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