«Provvedimento disciplinare: non è essenziale la motivazione, essendo sufficiente il richiamo alla lettera di contestazione».
Una recente sentenza della Suprema Corte Cassazione, la n. 2205 del 3 febbraio 2016, ci consente di tornare su un argomento molto importante entro lo svolgimento del rapporto lavorativo, come l'esercizio del potere disciplinare. Sono molti gli aspetti che possono influire sulla validità di un provvedimento disciplinare. Affrontiamo oggi quello relativo alla fase finale dell'intero procedimento sanzionatorio, ovvero la irrogazione della sanzione disciplinare.
Nell’esaminare le condizioni per un corretto esercizio del potere disciplinare è molto utile operare una netta distinzione tra requisiti “sostanziali” e requisiti “procedimentali”, con l’avvertenza che si tratta, in entrambi i casi, di presupposti essenziali, nel senso che la mancanza anche di uno solo di essi comporta la nullità della sanzione.
Il potere disciplinare attribuito al datore di lavoro trova il suo fondamento nell’art. 2106 del codice civile, secondo cui l’inosservanza degli obblighi di diligenza e di fedeltà (sanciti rispettivamente dagli artt. 2104 e 2105 del cod. civ.) “può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”, espressione che rappresenta la consacrazione testuale di un fondamentale principio “sostanziale”, ovvero quello della “proporzionalità” (tra infrazione e sanzione).
Ma se al primo posto fra i presupposti sostanziali v’è la fondatezza del fatto addebitato, appare forse più importante sottolineare come spetti al datore di lavoro fornire la prova in merito, conformemente ai principi generali (spettando semmai al lavoratore provare l’eventuale impossibilità per causa non imputabile).
Passando invece ai requisiti “procedimentali”, sono così comunemente definiti quelli introdotti dall’art. 7 dello Statuto del Lavoratori.
E’ notazione comune come tale disposizione abbia sottoposto il potere disciplinare ad un vero e proprio “procedimento” finalizzato a garantire adeguatamente al lavoratore il proprio diritto di difesa.
Tra i molti requisiti previsti v’è la preventiva “contestazione” dell’addebito.
Si tratta di una imprescindibile esigenza (mutuata dal diritto penale): se devo esser messo in condizione di difendermi devo prima sapere di cosa sono accusato.
Ma ciò non basta, perché la contestazione deve avere alcune caratteristiche, anch’esse strettamente funzionali al diritto di difesa: “tempestività,” “specificità” e “immutabilità”.
A proposito della “specificità” dell’addebito, proprio perché essa mira a consentire una puntuale difesa da parte del lavoratore, dovrà individuare i fatti con sufficiente precisione, di modo che non sorgano incertezze sull’ambito delle questioni sulle quali il lavoratore stesso è chiamato a difendersi.
Riportiamo di seguito qualche esempio tratto dalla realtà.
Alla Responsabile di produzione di un’industria farmaceutica venne contestato di aver “mostrato, in più occasioni, di non avere competenze analitiche e di non possedere specifiche proprietà linguistiche in ambito analitico”, e ancora di non aver dato “alcun contributo per la risoluzione o l’individuazione della causa delle problematiche in occasione di svariati problemi analitici.”
Un altro esempio di addebito palesemente generico è quello fatto ad un lavoratore per aver “sistematicamente disatteso le disposizioni aziendali relative al flusso di vestizione da adottare nei reparti produttivi”.
Ancora: “aver proferito una serie di espressioni scurrili” e di aver tenuto “un comportamento immotivato, ingiustificato e contrario a qualsiasi regola di civiltà e di educazione”.
Una annotazione importante: la genericità della contestazione non viene sanata dalle eventuali difese del lavoratore. Infatti, secondo la Suprema Corte di Cassazione, non trova applicazione in materia il principio generale secondo cui l’atto processuale non può essere dichiarato nullo quando abbia comunque raggiunto il suo scopo.
Altri punti fermi sono la tempestività e la immutabilità.
Il primo dei due requisiti è anch'esso chiaramente funzionale al diritto di difesa: è del tutto chiaro che se vengono addebitati al lavoratore fatti risalenti nel tempo, egli non può più ricordare cosa sia successo, potendo giustificarsi un certo intervallo di tempo tra il fatto addebitato e la contestazione soltanto quando si siano rese necessarie indagini più complesse.
Idem per quanto riguarda il principio di immutabilità, nel senso che ovviamente il datore di lavoro non potrà adottare il provvedimento sulla base di fatti mai prima contestati.
Quel che invece non è essenziale ai fini della legittimità del provvedimento, in sede di irrogazione della sanzione scritta, è la specificazione dei motivi che hanno indotto a tale decisione il datore di lavoro.
Infatti, come ricorda la Cassazione (facendo riferimento anche a precedenti decisioni: Cass. sez. lav. n. 1026 del 21.2.2015), nel procedimento disciplinare l'essenziale elemento di garanzia in favore del lavoratore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione della sanzione ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure quando il contratto collettivo lo preveda, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né a menzionare le giustificazioni fornite dal lavoratore e le ragioni che hanno indotto a disattenderle.
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