QUANDO IL LAVORATORE NON HA DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE E RISCHIA DI PERDERE IL POSTO DI LAVORO: UN CASO DI IMPOSSIBILITA’ A RENDERE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA

18 luglio 2017

Sono molte e varie le ipotesi in cui il lavoratore è temporaneamente impossibilitato a rendere la propria prestazione lavorativa.

Nell’affrontare le conseguenze di tale situazione bisogna ricordare in primo luogo che il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico (cioè a prestazioni corrispettive), con il quale le parti si obbligano a rendere una prestazione in cambio di un’altra: lavoro per retribuzione e retribuzione per lavoro. Il contratto di lavoro non è però un contratto sinallagmatico qualsiasi, perché è caratterizzato dalla “personalità” di una delle due prestazioni, quella lavorativa, che consiste proprio nel mettere le energie della persona al servizio dell’altra parte, il datore di lavoro. Da detta particolarità e dal modo in cui la prestazione è resa, il modo subordinato, cioè con la sottoposizione ai poteri direttivo e disciplinare del datore, scaturisce la “debolezza” del lavoratore nel rapporto e la conseguente esigenza di tutela dello stesso.

Per il lavoratore può divenire temporaneamente impossibile rendere la prestazione in base a ragioni connesse alla propria persona, quali la malattia, l’infortunio o la maternità, la maggior parte delle quali sono prese in considerazione dall’ordinamento ed oggetto di specifica tutela sia retributiva che normativa, nel senso che il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, seppure a certe condizioni o entro certi limiti. Sono, ad esempio, casi ammessi di licenziamento legittimo quelli in cui la malattia causi l’impossibilità perpetua a rendere la prestazione o il protrarsi dell’assenza oltre il periodo di comporto.

La Corte di Cassazione, con sentenza 16388/2017 ha affrontato un diverso caso di impossibilità a rendere la prestazione, quello di un dipendente addetto ad uno scalo aeroportuale cui non era stato rinnovato il tesserino per accedervi. Il lavoratore non poteva così recarsi nel proprio posto di lavoro. L’accesso ad alcune aree dello spazio aeroportuale è infatti disciplinato da normativa specifica, che attribuiscono la competenza a vigilare sulla sicurezza degli scali ed a rilasciare o negare autorizzazioni di accesso all’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) ed alla Polizia. Il datore di lavoro, dunque, non aveva e non poteva avere in quel caso alcuna autorità, né per opporsi al diniego del tesserino né per farlo rinnovare.

In mancanza di tesserino, dunque, il lavoratore fu sospeso dalla prestazione senza retribuzione e, trascorso un anno dall’inizio della sospensione, licenziato per giustificato motivo oggettivo.

Il Tribunale competente aveva giudicato il licenziamento illegittimo, poiché il datore di lavoro era comunque obbligato al repechage, cioè a verificare diverse possibilità di impiego in altre sedi di lavoro, obbligo che in quel grado era stato ritenuto non assolto.

La Corte d’Appello aveva ribaltato detta pronuncia, ritenendo assolto l’obbligo di repechage e dunque convalidando il licenziamento.

La Suprema Corte ha confermato la sentenza di appello, senza poter entrare nel merito dei fatti di causa, avendo la Corte d’Appello correttamente motivato le ragioni per cui considerava provata dal datore di lavoro l’inesistenza di altre sedi in cui impiegare il dipendente.

I Giudici Ermellini hanno negato anche il diritto del lavoratore, fatto valere dalla sua difesa, a percepire la retribuzione per il tempo in cui era stato sospeso. Essi hanno ritenuto infatti che, trattandosi di un caso di impossibilità ascrivibile al lavoratore, nel quale il datore di lavoro nulla poteva fare per eliminare il fattore impeditivo (mancato rinnovo del tesserino), il sinallagma contrattuale era stato validamente sospeso per tutto il periodo in cui la prestazione lavorativa non era stata resa.

Inoltre, con riguardo al licenziamento, la Suprema Corte ha ritenuto che il protrarsi dell’impossibilità per oltre un anno sia una ragione sufficiente a far venir meno l’interesse datoriale al mantenimento del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il licenziamento era legittimo per una ragione organizzativa e dunque oggettiva (come era stato formulato), anche in assenza di qualsiasi addebito disciplinare.

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