Con la sentenza n. 6678 del 7 marzo 2019 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore derivante da una condizione di handicap, ai fini della legittimità del recesso, il datore di lavoro deve verificare la possibilità di adottare degli adattamenti organizzativi che permettano al dipendente di mantenere il proprio posto di lavoro e di essere adibito a mansioni che egli sia in grado di svolgere. Tale obbligo, tuttavia, incontra un duplice limite: i possibili adattamenti non sono dovuti qualora comportino a carico dell’azienda un onere finanziario sproporzionato alle dimensioni ed alle caratteristiche della stessa; essi, comunque, comunque, devono essere adottati nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido.
La sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore, come noto, è stata ricondotta dalla giurisprudenza alla disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e pertanto anche a tale tipologia di licenziamento (così come stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Unite, 7 agosto 1998, n. 7755) è applicabile il c.d. obbligo di repêchage. Dunque, la sopravvenuta inidoneità psicofisica costituisce un giustificato motivo di licenziamento unicamente nel caso in cui il datore di lavoro abbia verificato che la capacità lavorativa residua del lavoratore non è compatibile con le mansioni assegnategli, né con altre equivalenti e neppure con altre eventualmente inferiori.
Nel caso che qui occupa, una lavoratrice era stata licenziata per inidoneità sopravvenuta e pertanto la stessa aveva impugnato il licenziamento lamentando che la società datrice di lavoro non aveva correttamente adempiuto al proprio obbligo di repêchage giacché, secondo la dipendente, in azienda erano presenti numerose altre posizioni compatibili con la sua capacità lavorativa, ma quest’ultima non le aveva offerto nessuna soluzione alternativa al licenziamento.
La consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del primo grado di lite aveva in realtà rilevato che, nell’ambito delle mansioni astrattamente assegnabili alla lavoratrice, residuavano solamente due posizioni lavorative che potevano essere ritenute compatibili con il ridotto stato di salute della stessa, ma che le predette postazioni non erano disponibili, in quanto già occupate da altri dipendenti.
In ragione di ciò, sia il Tribunale, sia la Corte di appello avevano ritenuto legittimo il licenziamento affermando che, nell’ipotesi di sopravvenuta inidoneità alle mansioni, il dovere datoriale di tutelare l’interesse del proprio dipendente alla conservazione del posto di lavoro non può estendersi fino a costringere il datore stesso ad effettuare un completo stravolgimento dell’assetto organizzativo dell’impresa. E tale sarebbe stata la situazione nel caso di specie. La lavoratrice ricorreva dunque in Cassazione, ma la Corte di legittimità, con la sentenza qui in commento, confermava la decisione dei giudici di merito.
A fondamento della propria decisione, la Suprema Corte rammentava, in particolare, che la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore licenziato, consideratane la professionalità raggiunta in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).
Nel merito, la Corte dichiarava di aderire all’orientamento secondo cui, “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni tecniche, produttive e organizzative, l’ambito del sindacato giurisdizionale, con riferimento all’obbligo del “repêchage”, non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.” per cui tale obbligo non può ritenersi violato “quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale” (cfr. Cass. n. 21715 del 2018).
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno ritenuto infondata l’argomentazione della lavoratrice tesa ad imporre al datore di lavoro la modifica del proprio assetto organizzativo (con riguardo all’assegnazione degli altri dipendenti in altre mansioni ed alla modifica del loro orario di lavoro) ai fini del reperimento di una postazione lavorativa adeguata alle sue residue capacità.
Archivio news